A proposito del Workshop:
Il Disagio Lavorativo: Etica, Clinica e Giurisprudenza
(Napoli 8 Giugno 2015, Istituto Italiano di Studi Filosofici
Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14)
Ha un senso parlare oggi di psicopatologie correlate al disagio lavorativo, discutere degli effetti che una cattiva organizzazione del lavoro produce sulla salute dei singoli e della collettività? Ha un significato oggi, in una condizione di crisi economica stagnante e con elevatissimi tassi di disoccupazione (soprattutto nella popolazione giovanile), parlare di stress lavoro-correlato, di mobbing, di burn-out?
La nostra risposta è certamente sì! Ed esistono considerazioni relative ad almeno tre ordini di fattori che giustificano questa affermazione: di natura economica, clinica e sociale.
Per quanto concerne gli aspetti economici, sono ormai numerosi i dati che hanno misurato l’entità del costo indotto dallo stress e dal disagio lavorativo. Già nel 2002 il costo economico dello stress lavoro-correlato, nell’ Europa a 15 stati, è stato calcolato nell’ordine dei 20 bilioni di euro (European Commission. Guidance on work‐related stress: spice of life or kiss of death. European Communities, Luxembourg, European Communities, 2002). Studi più recenti hanno valutato l’impatto economico in un range che va dalla perdita di circa l’1% del Prodotto Interno Lordo della Gran Bretagna al quasi 3% dell’Olanda (European Agency for Safety and Health at Work (EASHW), 2009 e 2014). Appare evidente, anche da una analisi sommaria di queste cifre, quanto esse assorbano una quota assolutamente significativa delle risorse economiche della collettività. Allo stesso modo, è stato dimostrato quanto i risultati dei programmi di intervento per la prevenzione dei disturbi psichiatrici (principalmente depressivi) negli ambienti di lavoro nella Comunità Europea abbiano determinato un risparmio, per ciascun euro investito, di una cifra compresa tra 0.81 e 13.62 euro (EU Health Programme 2008-2013. Executive Agency for Health and Consumers). Il complesso dei costi economici si fonda su una serie di fattori: riduzione della produttività, incremento dell’assenteismo, diffusione sempre maggiore del fenomeno del presenteismo (la presenza al lavoro in condizioni di salute non idonee), aumento degli incidenti sul lavoro, assenza dal lavoro per patologie e maggiore incidenza della disabilità o del precoce abbandono del lavoro attivo produttivo, incremento delle spese di formazione di nuove unità produttive per le aziende, accrescimento dei costi sanitari con l’ampliamento della spesa farmaceutica e dei ricoveri ospedalieri o delle cure ambulatoriali, costi connessi ai contenziosi legali. Un sistema di fattori complesso, quindi, in cui gli effetti negativi per l’economia concernono tanto l’azienda o il singolo settore produttivo quanto, soprattutto, il contesto sociale nel suo complesso.
Il secondo, dei fattori che abbiamo citato in precedenza, è rappresentato dagli effetti sulla salute collettiva, tanto fisica che psichica. Anche in questo caso, è molto vasta la letteratura scientifica che enfatizza come le diverse forme di disagio lavorativo (stress, mobbing, burn-out e la stessa incertezza lavorativa) siano correlate alla maggiore incidenza di varie forme di patologia: metaboliche, cardio-vascolari, neurologiche, immunitarie e, naturalmente, psichiatriche. Un recente studio francese della Sultan-Taïeb ha dimostrato come almeno il 9% delle patologie coronariche ( e l’11% di quelle ad esito letale) abbiano una eziologia lavorativa. Le patologie psichiatriche lavoro-correlate rappresentano anch’esse un esito frequente del disagio lavorativo che innesca, spesso quindi, patologie ad evoluzione tendenzialmente cronica. Tra tutte, probabilmente, le patologie depressive appaiono essere quelle maggiormente correlate al mobbing ed allo stress lavorativo, come emerge, ad esempio, negli studi epidemiologici condotti presso il nostro centro clinico napoletano sulla popolazione campana. Quando consideriamo gli esiti clinici, inoltre, dello stress lavorativo pensiamo ad effetti che si manifestano nel breve o medio periodo. In realtà, è possibile osservare che lavoratori esposti a situazioni prolungate nel tempo di disagio lavorativo presentano una maggiore probabilità di sviluppare una demenza di Alzheimer: questi studi svedesi hanno trovato già una conferma in una nostra recentissima indagine che ha messo in evidenza come l’esposizione a condizioni di mobbing sia significativamente correlata ad una atrofia cerebrale a livello dell’ippocampo.
Al terzo posto, quei fattori sociali che io condenserei in tre punti: tasso dei suicidi, incidenti sul lavoro e “depressione sociale”. In primo luogo, la questione dell’incremento del rischio suicidiario ha rappresentato un argomento di grande rilievo, con una risonanza sociale e mediatica che appare però spesso effimera, o comunque non capace di influenzare in maniera consistente scelte operative nel campo della salute (mentale innanzitutto) e delle politiche economico-sociali. La relazione tra disoccupazione, incertezza economica (e quindi esistenziale) e suicidio è una osservazione che ritroviamo in varie fasi storiche e nelle aree geografiche più diverse. Di fatto, se la patologia depressiva è quella che maggiormente si correla al disagio ed alla insicurezza lavorativa nel loro complesso, appare non sorprendente come il comportamento suicidiario possa essere, nei casi più gravi, con maggiori fattori di stress concomitanti ed in quelli associati ad minore sostegno sociale, uno degli esiti, ed il più più drammatico. La relazione tra suicidio e lavoro non va però circoscritta, come alcuni credono, alla sola relazione disoccupazione-suicidio (che già di per sé sarebbe motivo di estrema attenzione) ma comprende anche le connessioni del rischio-suicidio con lo stress ed il disagio lavorativo della popolazione occupata. Le ricerche condotte dalla Schneider in Germania, da Ostry in Canada, quelli di Routley & Ozanne-Smith in Australia e quelli sull’ideazione suicidiaria in Svezia ed in Italia di Fridner, offrono un’ampia documentazione sull’intimo rapporto tra il suicidio e la negatività delle condizioni negli ambienti di lavoro. E così, analogamente molto si potrebbe dire sulla maggiore frequenza degli incidenti, anche mortali, sui luoghi di lavoro in rapporto a condizioni di stress e di malessere organizzativo: anche in questo caso, i dati epidemiologici ci parlano con una certa chiarezza, ma anche su questo argomento il nostro ascolto è ampiamnete insufficiente. Infine, per quanto concerne quella che io definisco “depressione sociale” , essa rappresenta il substrato strutturale su cui questo drammatici fenomeni si inseriscono. Da più parti, e con diverso stile e pregnanza, si fa riferimento alla “depressione” che si è annidata nel nostro paese come uno degli ostacoli più rilevanti alla sua crescita: ma come è possibile pensare ad un rinnovato ottimismo, ad un senso di nuova speranza quando, soprattutto per i più giovani, i temi della sicurezza del lavoro, della sua stabilità, della ricerca di relazioni funzionali e improntate alla giustizia organizzativa, sono così frequentemente elusi e disattesi? Quale ottimismo è possibile in assenza di futuro?
Nel complesso, quindi, se le forme di organizzazione del lavoro “malate”, produttrici di stress, di vessazione e violenza psicologica, in cui più facilmente il fenomeno del mobbing può manifestarsi, potrebbero non costituire una forma di danno economico, nel breve termine, per la singola azienda esse colpiscono sempre, e profondamente, le risorse economiche e la salute della collettività. Per questo motivo, il legislatore non può delegare totalmente al datore di lavoro il completo, e talvolta insindacabile, dominio nel mondo del lavoro produttivo.
Se il lavoro è prima di tutto un luogo di relazioni e di rapporti tra persone, esso non può rappresentare una zona grigia, un cono d’ombra dove la giustizia e la regolamentazione sociale non siano in un pieno diritto di cittadinanza, che non sia regolata da sistemi, anche legislativi (e non di appesantimento burocratico), che svolgano una funzione equilibratrice e di prevenzione.
E’ per questo motivo che la nostra struttura per la Psicopatologia da Mobbing e il Disadattamento Lavorativo della ASL Napoli 1 centro (che è centro di riferimento per la Campania), insieme alla Associazione Italiana Benessere e Lavoro (l’AIBeL, che raccoglie la eredità dello storico network dell’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro e che, grazie alla sua cultura multidisciplinare, ha prodotto proposte operative nel campo normativo e giurisprudenziale), all’Istituto Superiore di Studi Sanitari “E.Cannarella” ed all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha organizzato un workshop che vuole essere innanzitutto un incontro di esperienze e competenze autorevoli (prima tra tutte quella del professore Casavola, presidente emerito della Corte Costituzionale) che possano dare forza e spessore alle iniziative che, in campo legislativo, l’AIBeL si accinge a presentare al panorama politico italiano.
Per questo l’8 di giugno a Napoli, tali argomenti saranno discussi in un “tavolo tecnico”, con una discussione che comincia ad aprirsi progressivamente al mondo esterno, provando a collegare culture, società ed impegno civile: come forse è nello spirito stesso dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di via Monte di Dio.
di Giovanni Nolfe
Responsabile Centro Psicopatologia da Mobbing e il Disadattamento Lavorativo
della Asl Napoli 1 Centro